2021



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– Miniatura tratta dal Laudario con note e figurazioni, Codice Magliabechiano II. I. 122.
Lettera «S» di “Sovrana” ...

– Lettera «D» di “Dal ciel venne messo” ...

– La miniatura del frontespizio del codice rapprsentante la Pentecoste.

– Lettera «A» di “A voi gente” ...

– Lettera «L» di “Lamentomi” ...

– Lettera «O» di “Ogne mia amica” ...

– Lettera «A» di “Altissima stella” ...

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LAUDE ALLA VERGINE
Nel 50° della morte del p. Raffaele Taucci


Quasi cinquanta anni fa, il 10 giugno 1971, moriva il p. Raffaello Leonardo M. Taucci, nato il 26 novembre 1882 a Strada in Casentino, parroco della SS. Annunziata e studioso di valore. “Viaggiando” negli archivi, aveva indagato sulla storia dell’Ordine e delle sue origini, guardando anche a quelle confraternite laiche del Dugento precedenti o contemporanee dei primi conventi.

Un suo studio fu I Laudesi di S. Filippo Benizi che ricorda l’istituzione di questa compagnia a Firenze per opera del Santo Padre dei Servi e del Beato Gherardo di Villamagna. Ne menziona anche i capitoli antichi noti perché rifatti nel 1451 al tempo di fra Mariano Salvini priore e di S. Antonino Pierozzi arcivescovo fiorentino. Scrisse inoltre come nel 1273 i Laudesi ottenessero la fratellanza dell’Ordine ed avessero poi una stanza vicino alla porta d’ingresso del convento e un’altra successiva con entrata nel primo chiostro. Dopo la trasformazione ‘grande’ dell’Annunziata, trovarono sede a lato della cupola con entrata sulla strada (via dei Pucci) e nel 1527 si fusero con la Compagnia di San Sebastiano, continuando ad adunarsi fino alle soppressioni del 1785.
Fu detta anche “del Freccione”, da un dipinto presente in sede, sul martirio di San Sebastiano con una grossa freccia nel petto, autore Andrea del Sarto.

Oltre all’articolo, dal consueto bello stile, pubblicato nel 1976 in Un Santuario e la sua Città, il p. Taucci ricorda anche le laudi medievali in tanti appunti presi in archivi e biblioteche.
I manoscritti lasciati riportano ad esempio il Muratori all’anno 1260:

“Multi laudes Dei et B.M.V. tempore illo inveniebat et eas nudi processionaliter eundo per ecclesias devote cantabant” (A quel tempo si trovano le lodi di Dio e della Beata Vergine Maria e molte persone nude (disadorne) le cantavano andando devotamente in processione per le chiese).

Nei quaderni si leggono anche alcuni scritti dello studioso Giuseppe Ferraro (1875): “La laude al cominciare della seconda metà del Cinquecento fino al Settecento è quasi sempre una misera storpiatura dei canti d’amore, fantastico e ricco tesoro della letteratura italiana. È una povera accattona che ruba tutto: metro, invenzione, frase, musica delle canzonette ... tutto ciò, s’intende, a fin di bene, per allontanare la gente dai pensieri mondani”.

Si riporta poi la “Differenza fra l’inno e la laude: l’inno è di andamento solenne, grave, cosmico, la laude è popolare, sconnessa, rapida, come ha da essere l’espressione di uomini pieni di ardore religioso: è il linguaggio dell’entusiasmo”.

Seguono le note sui Monumenti antichi di dialetti italiani del filologo Adolfo Mussafia di Spalato. Figlio di un dotto rabbino, questi era nato il 15 febbraio 1835 e si era trasferito per studio dal 1852 a Vienna, dove aveva coltivato con passione i suoi interessi linguistici. Chiamato poi a ricoprire il posto di lettore d’italiano presso l’Università di Vienna, aveva maturato nel 1855 la conversione al cattolicesimo e dal 1860 era stato nominato professore straordinario di filologia romanza presso l’Università. Diventato dal 1867 professore Ordinario, aveva dato alle stampe ben 336 scritti sulla sua coinvolgente materia.
Malato da tempo, nella ricerca di un clima mite, si era trasferito a Firenze nel 1903, dove era morto il 7 giugno 1905. È sepolto nel cimitero degli Inglesi (v. più ampiamente in Dizionario Biografico Treccani). E forse, pensiamo, nella città sull’Arno il p. Taucci ebbe occasione d’incontrarlo e di certo di leggerne gli scritti di filologia. Da questi l’ugualmente dotto padre trascrisse negli appunti pochi versi di una lunga e bella laude, quella che, pensiamo, gli piacque di più. Per ricordarne il 50° della morte, la trascriviamo intera.

Appartiene ad un Codice di Rime Religiose della Biblioteca di San Marco di Venezia. Si tratta, per riassumerne il contenuto, di una canzone “novella”, cioè nuova, composta per far comprendere a chi legge l’affetto dell’autore verso la Vergine Maria ... La quale è detta rosa del paradiso, fiore dai vividi colori e profumato, dolce e cortese, sovrana assisa sulla sua “carega” d’oro, di zaffiro, d’argento più chiaro della “stella diana” (Venere, la stella del mattino).

Gli angeli ne cantano continuamente la gloria e chi abita nel suo regno – simile a un verziere (giardino) –, è conte, marchese, signore e cavaliere, cioè una delle figure più idealizzate nel galante medioevo.
Ma la Vergine ha anche altri appellativi: stella del mare e soccorso ai marinai e agli erranti, fontana viva, scala del cielo, porta, uscio e chiave del cielo, verga della radice di Iesse che porta il Cristo fiore, concetto teologico, questo, caro un tempo anche al p. Eugenio Casalini.
Nonostante ciò Maria non è amata dai malvagi: seguono infatti nella laude la condanna alla perfida eresia sul Cristo non si era incarnato nel corpo “mundo”, cioè immacolato, di Lei e la citazione di un giullare medievale, Schiavo di Bari, e di Osmondo da Verona, dei quali in verità sappiamo poco.

La Vergine in ogni modo resta la mediatrice, la fontana di pietà per chi ha bisogno, la lucerna che mostra la vita eterna. Gli orfani, gli abbandonati, i prigionieri da lei ricevono conforto e salute.
Alla fine Lei trionfa nel suo tempio in cielo addobbato con samiti (stoffe di seta), tappeti, con i muri e le pareti rivestiti di baldinelle (altro tipo stoffe pregiate) e con le tovaglie d’oro, argento e smeraldi, mentre gli angeli cantano bellissime melodie.

LODI DELLA VERGINE

A l’onor d’una nobel polçella,
Mare [=Madre] del Re celestial Segnor,
Cantar me plas d’una cançon novella
A tuti quigi k’entendo en lo so amor.

Dond’eo men torno a lei sì com a dona,
K’ella en lo me cor sia stil e penna,
En ditarla si com[o] fa besogna,
Ke li malvas de lei maldir se tema.

Oi rosa encoloria del parais,
Aolente plu ke n’e consa nesuna,
La scriptura de tu parla e dis,
Ke vui si’ plui [lucent] ke sol ne luna.

De tute le done si’ regina,
Portando ’l segno de virginità,
Enperçò ke vui si’ la plui fina
Ke no fo dal primer hom en ça.


Tanto si’ cortes e ben noria
Plena d’aolimento e de dolçor,
(De Vui parl’e’, oi Santa Maria!),
Ke per tuto ‘l mundo en va l’odor.

De pree precïose margarita
Altamente vui si’ encoronaa,
E segundo ke la raxon e scripta
Sovra tuti li angeli si’ exaltaa.

De la dextra de l’omnipotento
La vostra carega e sovrana,
D’or e de saphyr e d’ariento
Claro plu ke stella diana.

Le vostre sunt angeliche belleçe
Cun la yostra clara devota e benegna,
Regnant’ en vui tante nobel fateçe
Ke l’angeli del cel sen meraveja.

Digando: “Ki è questa novella rosa,
K’ascendo en cel cun tanto gran triumpho
K'el par ke le aere e la terra se covra;
Tant’ è ’l splendor ke rendo el so bel fronto?

De gloria e d’onor par coronaa
Dal nostro bon Segnor, Re glorioso,
Lo qual per la man drita l’à menaa
En thalamo so sancto precioso”.

Oi ! ki porà de la vostra persona
Tropo parlar né dir, nobel polcella,
De fin ki li santi angeli en raxona,
De le vostre bontae; tanto si’ bella!

Ma eo pur ne vojo, dolçe dona,
Dir e cuitar tutore quant’ eo posso,
A ço k’el cel mi me seai colona
E gratiosa aprovo el Fijol vostro.

K’el è vero, e la scriptura el narra,
Ke De a l’om ke de vui parla e pensa
Corona en cel ge dà splendente e clara,
Regal carega e nova vestimenta.

Dond’è no me ne vojo trar en dre,
Ke no ve laudo e no re beneiga,
Per plaser a l’alto Segnor De
Et a vui, Madona, en ogna guisa.


Ka ki lauda la mare lo fijol lauda,
E po ki mal ne dis en somejento [=simile],
K’a dissipar la flor ki no sen guarda
Mester è pur ke ’l fruito sì aniento.

Mai eo al como vostro hom, gloriosa,
Tutore, o’ k’eo me sia, laudar ve vojo,
Ka bem lo so c'a Deo nè graciosa
L’anema mia, quando eo da vui me tojo.

Dond’eo digo ke per vui se constrenço
Lo paradis, quel aolente verçer,
E çascaun ke abita en quello regno,
E cunti e marchis e done e cavaler.

Li quali, Madona, de vui à tanta festa
Ke per letitia igi canta una cançon.
Ke lo segnor a la vostra majesta
A so[to]posta ognunea nation.

Da l’altra parto li angeli v’aora,
Dolge vernante aodorifera rosa,
Cantando tuti a alta vox sonora
“Ave Maria!” quella angelica prosa.

Dondo s’el n’e per vui, Vergen Maria,
Nesun ascendo en cel per altro porto,
Enperço ke vui si’ scala e via, Dond’è mester c’ogn’om là su ge monto.

Quelui lo qual en drita fe’ no v’ama
No g’ascendrà né no ge metrà nas,
Mo condempnà sera en l’eternal flama
Kè vui del cel si’ porta, uxo e clavo.

Per vui radiante, clara stella,
Redriça tuti a porto de salù
Li marineri e le nave e la vela,
Li quali el drito camin a perdù.

Li viandenti e li peregrini,
K’en le foreste perdo la vi[a] drita,
Retorna tuti a li driti camini
A la vostra ensegna, margarita.

Oi! de! regina del cel, porto e riva!
Cum granmente fala l’om e ’l dotore,
Ke d’altra domna dis fontana viva,
çijo né flor né stella cun splendore,

Se no de vui, la quala si’ vera lux,
Fontana e scala e rosa e viola,
K’enlumina la terra e ‘l cel de sus:
En tuto ’l mondo par ken redola.

De dolçor e de gracia [vu] si’ plena,
Stella del mar e de lo cel sovrana,
Dondo ki non ama rui degn’è de pena,
K’el vostro amor ogna langor resana.

Ognunca cortesia per vui s’ensegna,
Regina de li angeli gloriosi,
Per la qual ogn’altra dona regna,
Cunti e marchisi e cavaleri e duxi.

Li radii del sol e la soa spera
E stelle e luna la soa lux ascondo
Davanço la vostra avinente clera
K’alumina lo cel e tuto ’l mundo.

Segundo ancor ke en Ysaia se trova
De la rais de Jesse vu si’ virga,
Ke porta Cristo quel’alta flor nova,
Ke çorno dar fe’ de la noto negra.

E qual la olente flor si fe’ tal fruito
Ke tuto ’l mondo si n’è redemù,
E despoli[ä l’] inferno n’è al postuto
E po’ li diavol è morto e confondu.

Dondo li can çuei se ne confunda
E tuta l’altra perflda heresia,
Ke dis ke Deo no preso carno munda
Del vostro corpo, o gloriosa Maria.

E çig’ e flor se ne bata la boca
Sclavo da Bar e Osmondo da Verona,
Ke tuti li soi diti fo negota,
For ço k’igi dis de la vostra persona.

E ben lo sapa ognuncana çuglaro
K’el diso gran folia e gran mençogna,
Quand’ s[l] apella e dis en so cantar
çijo né flor d’alguna carnal dona.

Mo solamentre li laudi e l’onuri

A vui se deso, avenante pulçella,
Ke de le altre nui semo ben seguri
Ke vui si’ la mejor e la plu bella.

O ki poria unca dir cun bastança
De vui, stradolcissima regina,
Defin ke de la vostra carno sancta
En terra Deo sen fe’ cella e corona!

Certo, Madona, l’umana natura
No lo poria exprimero né comprendro
Né boca dir né lécrose en scriptura;
Tant’è l’alteçe vostre el sovran regno.

K’en [v]ui lo Re del cel, Vergen beaa,
Asai plu dolçemente descendé
Ke sovra l’erba no fa la rosaa,
Da nuj’omo se sente né se ve’.

Denanço e de dre sença dolor
En verginitä vui el parturisi,
Segundo ke fa la terra l’erba e la flor,
Cantando en l’aere li angeli beneiti.

E ben h ancor consa da creer
Ke vui la boca soa santa basasi,
Pur tanto cum fo ‘l vostro plaser,
Tegnandolo en li vostri dolçi braçi.

Per ço creç’ e' fermamentre en lo cor me
Ke ço ke vui volì ke plaso a lui,
E k’el n’è consa ke amo el Fi’ de De
Ne ’n cel né ’n terra tanto como vui.

Dondo ki vol aver la Deo amistà
Clamo humelmento la vostra persona,
Ke vui fontana si’ de pietà
C’a la besogna nuj’om abandona.

Ke la scriptura en verità lo dis,
Ke per le rostre sante oration
Davanço Cristo re del parais
Li peccaor trova veras perdon.

Ke vui si’ quella splendente lucerna,
K’enanço Deo ardi da ’gnunca ora,
Monstrando lo camin de vita eterna
A tuti quigi k'en tenebrie demora.

E se no fos el prego vostro, Madona,
Lo mondo avo perir cun gran furor,
Enperçò ke nui non avemo sogna
De servir al nostro Creator.

Mo tant’e le vostre bontà, Pulcella,
Ke vui a li soi pei sì casi sempro,
Pregando la soa faça clara e bella
Ke ne don’ ancor spacio e tempo.

Oi cum granmente, Vergen beneeta,
Nui sem tegnui d'amarve çorno e sera
Defin ke vui si’ posta e mesa
Per esro enançi Deo nostra candela.

Per vui se fes la pax de quella verra,
C’avea li angeli cun la cent el mundo,
Per lo peccà d’Adam k’ el fes en terra,
Maniando contra obedientia el pomo.

Da li propheti e da li pari santi
De longo vui si’ prophetaa,
E mo’ si’ da li vecli e da li fanti
Sovra ogn’ altra dona exaltaa.

O dolcissima dona gloriosa,
Per l’amirabel angel Gabriel
Lo Salvaor v’aleso per soa sposa
Mandandove salù da l’alto cel.

Dondo archa fata si' de la le' nova
E del Fijol de De castel e rocha,
Ke n’à asponù lo testo per la glosa,
Ke gn’amaistra de la vita nostra.

Templo spirital e regal trono
Vui si’ de Cristo, Salamon novello,
Plen de vertue e ca' d’oracion,
E plui de sol splendento clar e bello.

A lo qual tuto 'l mondo declina
Per empetrar da quel celeste Re
Per li vostri enpregi, humel regina,
Perdonança e gracia e mercè.

De samiti regali e de tapei
Lo vostro templo et an’ de baldinelle
Le paree e li muri è revestii
E d’endorae toaje molto belle.

D’or e d’arçento e de smeraldi fin
Dentro e de fora tute lavorae,
E da li Angeli e da li Cherubini
En melodia de voxe è officià.

Li orfani, li lasi e li cativi
Si ge recevo conforto e salù,
E quellor li quali sta ligai e prisi
Encontenento el carcer ge à rumpù.

E ki devotamente lì se rendo
çamai no g’è mester avir paura
Ke algun demonio ge possa oflendro,
Né fantasia né alguna creatura.

Enperçò ke vui si’ defensaris
De quellor ke invoca el vostro nomo,
E ki no v’ama, o alta enperaris,
Mejo ge fos ancora nasro al mondo.

Dondo el doctor ke questo dito fesso,
Açò k’el parlo de vui a gran baldor,
Marcè ve clama en privà et in pales,
Ke vui degno el façai del vostro amor.

K’ello sa ben sença alcuna mençogna
K’el di ke l’om questo cuito à auitar
Devotament enançi vui, Madona,
K’ el n’ ä da De granmento enpetrar *.

Trascrizione e commento di Paola Ircani Menichini, 27 febbraio 2021.
Tutti i diritti riservati.


*Monumenti antichi di dialetti italiani, in «Sitzungsberichte der philosophisch-historischen Classe der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften» [Relazione della sessione della classe storico-filosofica dell'Accademia Imperiale delle Scienze], 1864, pp. 191 e ss.